Il documento viene offerto dal CNCA Lazio al confronto pubblico e alle forze politiche che si candidano a governare la città in occasione delle prossime elezioni amministrative, confidando che la questione consumi e droghe rientri a pieno diritto nel dibattito sulle Politiche di Welfare.
Riflessioni e proposte del CNCA Lazio sul fenomeno dei consumi/dipendenze
A cura dell’Area Consumi e Dipendenze del Cnca Lazio – Federazione regionale del CNCA (Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza)
[Roma, 28 Aprile 2021]
Diversi gruppi aderenti al CNCA Lazio sono impegnati nell’ambito dei consumi e delle dipendenze sin dagli anni ’80. Con un approccio laico e professionale gli operatori hanno partecipato, ininterrottamente fino ad oggi, all’evolversi del fenomeno nelle sue varie sfaccettature: sostanze d’uso e abuso, modalità di consumo, luoghi del consumo, caratteristiche dei consumatori, riorganizzazione dei servizi in base al mutare del fenomeno e della domanda.
La città di Roma ed i suoi amministratori hanno, sin dai primi anni ’80, manifestato una sensibilità al tema dei consumi che ha garantito ai cittadini la disponibilità di servizi specifici prima ancora che a livello nazionale ci si ponesse il problema di come affrontare tale fenomeno. Questa situazione ha permesso sperimentazioni, formazione, ed il consolidarsi di un patrimonio professionale e culturale che ha fatto dell’esperienza romana una realtà all’avanguardia nel paese. Purtroppo questo percorso è stato fortemente ostacolato a partire dal 2008, anno di insediamento dell’amministrazione Alemanno e completamente interrotto nel 2012-2013 con la chiusura di tutti i servizi attivi nel territorio. Molti ricorderanno i tentativi dei gruppi del CNCA Lazio di contrastare tali politiche che hanno portato allo smantellamento di una rete cittadina di servizi: decine di manifestazioni, ricorsi al TAR, condanne dell’Agenzia Capitolina sulle Tossicodipendenze da parte del Tribunale Civile di Roma, insomma un percorso durato anni che ha solo rallentato, ma non impedito, un esito finale devastante sia per gli enti e gli operatori direttamente coinvolti, sia per la città, privata di servizi consolidati in decenni di storia.
Nel bilancio di Roma Capitale, dagli anni ’80 fino al 2012, c’è sempre stata una voce di costo che ha finanziato servizi per accogliere e sostenere persone con problemi correlati ai consumi. A queste risorse si sono aggiunte quelle che per diversi anni la Regione Lazio ha trasferito ai Distretti socio-sanitari (Misura 5 della DGR 136/2014) per la realizzazione di interventi di prevenzione ed inclusione socio – lavorativa. Questo assetto garantiva alla città di Roma circa 35 servizi, una disponibilità economica di circa 6 milioni di euro l’anno e l’impegno costante di 150/200 operatori. Questo patrimonio è stato completamente azzerato dall’amministrazione Alemanno e colpevolmente non ripristinato dagli amministratori successivi. Il fenomeno dei consumi e delle dipendenze ha subìto forte incremento e diffusione negli ultimi anni e la città di Roma, pur disponendo ancora dell’Agenzia Capitolina sulle Tossicodipendenze, non apre un dibattito, non programma interventi, non implementa politiche territoriali: una rimozione patologica che ha fatto arretrare la città sia in termini di risposte organizzate ed efficaci alla domanda di aiuto e sostegno sempre crescente, sia in termini culturali favorendo l’adozione di chiavi di lettura del fenomeno semplicistiche, riduttive nonchè basate sul pregiudizio e lo stigma anziché sulla conoscenza e l’approfondimento.
Il fenomeno è largamente diffuso e coinvolge varie fasce della popolazione a prescindere dall’età, dal genere, dalla scolarizzazione, dallo stato di salute bio-psico-sociale o dalle condizioni economiche del consumatore. Questi dati emergono dalle Relazioni Annuali al Parlamento e dal Report Europeo dell’EMCDDA, con particolare riferimento alla popolazione giovanile e studentesca (3,8% con consumi frequenti e il 25,6% con consumi di almeno una sostanza nell’ultimo anno). Spesso al consumo sono correlati diversi fattori di rischio che dipendono da variabili molto eterogenee relative al soggetto, alla sostanza e all’ambiente: tossicità, quantità e modalità di assunzione della sostanza; vulnerabilità individuali (stato di salute psico-fisica) e vulnerabilità ambientali (povertà socio economica e culturale). Al contempo sono noti alcuni fattori protettivi e come essi possano contenere i suddetti rischi, arginando gli esiti più critici dell’assunzione di sostanze.
È veramente inaccettabile che una città come Roma abbia rinunciato a governare questo fenomeno, a tentare di ridurne i rischi per tutti quei cittadini che consumano in modo più o meno problematico, a fronte invece di una maggiore diffusione delle sostanze e dei rischi correlati, spesso con un risvolto preoccupante proprio sul piano sociale oltre che su quello sanitario del quale per competenza se ne occupano le AA.SS.LL. territorialmente competenti.
Abitano il comune di Roma una quantità di giovani che non ha eguali nelle altre città della penisola. Solo a titolo esemplificativo, mentre i giovani compresi tra i 15 e i 34 anni residenti a Milano ammontano a 272.024 unità, nella Capitale sono presenti 568.536 unità, di cui 291.153 maschi e 277.383 femmine. Si tratta di oltre mezzo milione di giovani cittadini, di cui una parte cospicua frequenta le circa 20mila classi scolastiche che compongono il sistema formativo, distribuito su circa 1.287 km quadrati, la superficie di Roma Capitale. È sufficiente elencare questi dati e queste dimensioni per comprendere quanto sia complesso affrontare, nella più grande metropoli italiana, il fenomeno dei consumi di sostanze psicotrope (legali e illegali), quello del gioco d’azzardo e delle dipendenze a tali fenomeni riconducibili: i programmi di intervento ispirati ai quattro pilastri raccomandati dall’Unione Europea (prevenzione, cura e reinserimento, lotta al narcotraffico e riduzione del danno) vanno infatti declinati a partire dalle straordinarie caratteristiche della nostra città. Una città costituita in buona parte da flussi (circa un milione e trecentomila pendolari raggiungono quotidianamente Roma), meta turistica di prima grandezza, e con la presenza di circa 365.000 cittadini stranieri immigrati.
In un teatro di queste dimensioni e di questa complessità, il fenomeno “droghe”, l’abuso di alcol e il gioco d’azzardo impattano in modo del tutto originale, e seppur con tratti simili, colonizzano in modo articolato le municipalità della capitale. Sullo sfondo di una città che rappresenta presumibilmente il mercato di spaccio/offerta di droghe e il luogo di consumo più vasto della penisola, i fenomeni di cui si parla trovano cristallizzazioni e drammatizzazioni diverse nei diversi territori. Di seguito, anche se in modo schematico e semplificato (e senza alcuna intenzione di stigmatizzazione collettiva dei luoghi) pochi esempi di specifiche peculiarità che sembrano caratterizzare alcuni quadranti urbani: la grande pervasività delle istallazioni di gioco d’azzardo sulla direttrice che corre lungo la Via Tiburtina, dalla stazione al GRA, presenze che modificano lo skyline di quartieri una volta sedi di attività industriali e produttive; l’economia illegale derivante dal narcotraffico che sembra avere il suo centro di smistamento in alcuni degli agglomerati di edilizia residenziale pubblica dell’immensa cintura periferica romana, luoghi spesso privi di qualsiasi altra opportunità lavorativa; il fenomeno dell’abuso di alcol e di droghe presente sia nelle piazze storiche che nelle nuove centralità frutto della gentrificazione degli anni passati, contesti caratterizzati dall’esplosione incontrollata di attività di loisir notturno (la “movida”); la presenza silenziosa e invisibile di tante persone, donne e uomini in difficoltà, anche per i loro consumi problematici o dipendenze, costrette a colonizzare le parti nascoste dell’urbano (ponti, cavalcavia, aree residuali, aree golenali dei due fiumi romani); persone spesso prive di qualsiasi forma di rapporto con le istituzioni se non in occasioni di sgomberi forzosi.
La pandemia in corso ha bruscamente e profondamente condizionato le abitudini e la socialità sia nella sfera pubblica che in quella privata di ciascun cittadino, impattando anche sulle condotte di consumo che, pur non avendo subito significativi aumenti o riduzioni (leggera diminuzione del consumo occasionale ma aumento del consumo di sostanze classiche – cocaine – eroina – oppio), ha però innescato repentini cambiamenti di forma che ne modificano i rischi correlati e rendono il fenomeno più isolato e impermeabile agli interventi degli operatori del settore: le persone si assicurano maggiori scorte di sostanze, spesso i consumatori si organizzano in gruppi più o meno grandi, il consumo si sposta al chiuso (case private, feste), è esploso il fenomeno della consegna a domicilio delle sostanze (a singoli, a gruppi, a feste, a situazioni abitative non familiari), la limitazione degli spostamenti ha modificato la consolidata mappa dei luoghi di spaccio e di consumo diffondendoli nelle periferie e non più prioritariamente al centro, è aumentato il fenomeno del binge drinking (almeno 6 unità alcoliche assunte in breve tempo). L’Osservatorio sulle droghe di Lisbona ha rilevato in tutta Europa un aumento dei ricorsi ai Pronto Soccorso per scompensi psichiatrici, non è da escludere che molti di questi siano droghe/correlati. La crisi pandemica ha reso evidente che sarà necessaria una rivisitazione complessiva della medicina di territorio e degli istituti di welfare, sarà necessario superare la logica “resiliente” (che prevede che tutto torni come prima) in favore della “preparedness”, la capacità di essere preparati e reattivi di fronte alle crisi non tanto e non solo in termini di risorse, quanto piuttosto in capacità riflessiva e trasformativa. Sarà inoltre necessario osservare in un’ottica rinnovata anche le politiche pubbliche sulle droghe. Noi per primi, durante il lockdown, abbiamo sperimentato le potenzialità delle Unità Mobili, non perché siano state impiegate nella consegna di pacchi alimentari e sanitari (un differente impiego che ripeteremmo altre 100 volte) ma per la loro capacità di osservare l’urbano con uno sguardo comprendente e competente, ovvero non selettivo sul target assegnato, ma in grado di guardare soggetti diversi e di offrire loro risorse relazionali e materiali. Questo impone una ricollocazione delle diverse politiche sociali in un ambito largo, che prefiguri osmosi tra i diversi settori di intervento: temi come l’Inclusione nel tessuto sociale e l’integrazione lavorativa, perché debbono essere divisi per target e non essere considerate invece politiche che riguardano le fragilità a prescindere dalla causa della fragilità?
L’impoverimento progressivo che ha interessato negli ultimi anni fasce di popolazione sempre più estese ha trovato nella pandemia un forte acceleratore, le stime preliminari Istat rilevano che nel 2020 si sono azzerati i miglioramenti ottenuti nel 2019 e più di 2 milioni di famiglie pari a quasi 6 milioni di individui sono scivolati nella povertà assoluta. A fine 2020 la disoccupazione giovanile sfiora il 30% – peggio fanno soltanto la Spagna e la Grecia – il tasso di occupazione tra i 15 e i 64 anni scende al 57,6% e preoccupante è anche l’aumento degli inattivi, particolarmente tra i giovani. A rendere il tutto ancora più insidioso è l’eterogenea distribuzione di questi dati per età, genere e area geografica esponendo particolarmente le fasce più deboli.
Questo andamento e queste previsioni sul mercato del lavoro, purtroppo destinate a peggiorare almeno nel breve periodo, rendono molto più complessa l’attivazione di percorsi di inclusione socio – lavorativa delle persone più fragili. È sempre più pressante la necessità di ripensare e riprogrammare l’inclusione facendo riferimento ad un paradigma che tenga in considerazione tutti questi cambiamenti: imprevisti, veloci, che impattano su una fascia estesa ed eterogenea di popolazione e che non cesseranno al cessare dell’emergenza pandemica.
Alcune proposte
Partendo dal presupposto che l’Ente locale debba occuparsi della componente socio-assistenziale della domanda che proviene dall’ambito dei consumi e delle dipendenze, il CNCA Lazio ritiene che chi si candidi a governare la città debba definire un programma specifico sul fenomeno dei consumi e delle dipendenze, mettere in agenda alcuni temi e assumere l’impegno di riattivare politiche ed azioni territoriali inerenti la prevenzione, l’inclusione nel tessuto sociale, in particolare lavorativa e altre forme di sostegno/presa in carico leggera.
La prima decisione che l’Amministrazione deve prendere è relativa alla governance sulle politiche inerenti i consumi e le dipendenze: fino al 2012 l’Agenzia Capitolina per le Tossicodipendenze finanziava e monitorava circa 35 progetti. A partire dal 2013 Roma Capitale ha un solo servizio e l’ACT è ancora operativa, occupa una sede di diverse centinaia di metri quadrati e dispone di un suo organico. Eppure, la Giunta Marino nel 2013 ha approvato una Memoria che ne prevedeva la chiusura e l’internalizzazione delle attività al Dipartimento Politiche Sociali, anche se l’allora consigliera del M5S Virginia Raggi era contraria. Nel 2019, in qualità di Sindaca, Virginia Raggi invece cambia idea e viene approvata dall’Assemblea Capitolina la Mozione n. 42 che adotta gli stessi provvedimenti della Memoria di Marino oltre ad indicare una nuova destinazione della sede dell’ACT. Risultato: dopo 8 anni nulla è cambiato e nessuno si chiede quale attività svolga l’ACT, salvo fornire un alibi a Roma Capitale per la mancata gestione del fenomeno dei consumi e delle dipendenze. Non ci sarebbe nessun pregiudizio nei confronti dell’ACT, se svolgesse attività quantitativamente e qualitativamente proporzionate alla struttura di cui dispone, anche se sarebbe meglio uscire da logiche di settore e programmare politiche sociali integrate, ma immobilismo e inattività protratti per 8 anni sono inaccettabili. Roma, la più grande delle città metropolitane del nostro paese, merita una stagione di innovazione e di sperimentazione almeno pari agli anni in cui ha contributo con decisione all’istituzione di servizi avanzati sul fenomeno: per fare questo è indispensabile trovare e spendere risorse adeguate, riprogrammando ciò che la giunta Alemanno ha cancellato. Ma questo non è sufficiente se al contempo non si abbandona definitivamente l’ACT in favore di un tavolo di coprogettazione cittadino (considerati anche i nuovi strumenti previsti dalla riforma del Terzo Settore e dai provvedimenti regionali in materia) declinato nei municipi e in grado di avanzare letture del fenomeno e conseguenti proposte innovative, come parte di un più generale tavolo di coprogettazione cittadino sulle politiche di welfare. Sono diversi anni che la Regione Lazio ha approvato, ed effettivamente trasferito i fondi relativi al “Piano Cittadino” di interventi sulle dipendenze presentato da Roma Capitale: Piano Cittadino e fondi giacciono nelle casse dell’Agenzia Capitolina per le Tossicodipendenze e la città non ha servizi. Urge una decisione.
Altra questione che deve essere affrontata riguarda l’integrazione socio sanitaria ed il conseguente coordinamento e collaborazione tra le ASL di residenza, i Municipi di residenza ed il Dipartimento Politiche Sociali di Roma Capitale. Nell’ambito delle dipendenze non è sempre semplice rintracciare la natura sociale o sanitaria dei bisogni ai quali rispondere ma la soluzione non può essere far rimbalzare il paziente da un servizio all’altro, urge pertanto l’ottimizzazione delle risorse e dell’efficacia dei percorsi favorendo, ad esempio, il ricorso innovativo ai PAI (Piano Assistenziale Individualizzato) che consentirebbe la realizzazione di progetti nei quali la cura e l’assistenza trovano una possibile integrazione.
Molto si può fare inoltre sul tema della comunicazione, abbiamo assistito in passato a campagne infarcite di ideologia e moralismo prive di qualsiasi riferimento scientifico che hanno favorito lo stigma sociale e il pregiudizio nei confronti dei consumatori. Occorre proporre invece una comunicazione adeguata e efficace che sappia sensibilizzare e informare l’opinione pubblica sul fenomeno dei consumi, che sappia favorire processi di advocacy, promuovere l’adozione di comportamenti orientati alla cura di sé e che si sviluppi in integrazione e a supporto delle azioni in essere.
La prevenzione
Sono passati oltre 45 anni dalla prima legge organica sulle droghe, la 685 del dicembre 1975. Da quella data, nonostante i successivi interventi legislativi e amministrativi, nel nostro paese, si sono adottate politiche pubbliche che hanno oscillato da un approccio scarsamente sanzionatorio ad uno decisamente punizionista, sempre però all’interno del paradigma della proibizione del consumo e di una piena adozione di quella war on drugs fortemente caldeggiata dalle amministrazioni statunitensi nel periodo antecedente alla presidenza Obama. Il pendolo della regolazione si è riverberata anche nel significato, nel compito, nelle metodologie e nei messaggi della prevenzione, uno dei quattro pilastri delle politiche europee sulle droghe. In estrema sintesi, si è oscillato tra messaggi iscrivibili nello slogan Just say no, ovvero “tutto quello che devi sapere sulle droghe è che devi dire no”, (coniato dalla First Lady Nancy Reagan durante la presidenza di suo marito) e quelli che hanno adottato un altro taglio: Just say know, ovvero “ciò che è importante è che tu conosca”. Quest’ultimo stile sembra essere il più adeguato di fronte ad un fenomeno, il consumo di droghe sia legali che illegali, fortemente controverso, che vede opinioni molto diverse tra la popolazione, in particolare nella sua componente giovanile. Tra le altre cose, hanno contribuito al successo dell’approccio Just say know: la comparsa del virus Hiv, che ha spostato il focus dalla priorità di dissuadere dal consumo a quella di preservare la salute e il futuro dei consumatori; la comparsa sul mercato illegale delle cosiddette nuove droghe, ovvero le metamfetamine (Mdma e simili) e una relativa “normalizzazione dei consumi” intervenuta in fasce tutt’altro che marginali della popolazione.
Sulla scorta di quanto accennato, una moderna politica pubblica preventiva, adeguata ad una vasta area urbana come quella romana, necessita di programmi in grado di:
- Essere adeguata alla realtà e ai bisogni di assuntori molto diversificati in termini di età, genere, cultura, stili di vita e di consumo;
- Adottare approcci, metodologie e pratiche in sintonia con quanto suggerito dall’Osservatorio Europeo sulle droghe di Lisbona;
- Tenere nel giusto conto la scansione delle diverse stagioni (per esempio della cosiddetta movida primaverile e estiva) e delle opportunità di intervento nel diurno e nelle ore serali-notturne;
- Rispondere sia alla necessità di interventi spiccatamente territoriali, sia all’opportunità di seguire le psicogeografie giovanili, che disegnano tracciati che percorrono l’intera area metropolitana;
- Tracciare un continuum tra prevenzione/limitazione del rischio con gli interventi di riduzione del danno;
- Intervenire negli istituti scolastici con attività non occasionali privilegiando quelle scuole secondarie superiori che – per caratteristiche socioculturali – possono trovare negli interventi un valido contributo nella logica dell’empowerment individuale e di gruppo.
Inclusione nel tessuto sociale, in particolare integrazione lavorativa
Il protrarsi delle difficoltà della popolazione generale a trovare o a mantenere il posto di lavoro (fenomeno che sempre più spesso viene definito come cambiamento strutturale del mondo del lavoro più che come crisi transitoria) insieme all’insufficienza di misure di sostegno a cittadini inoccupati-disoccupati -a prescindere dall’essere già stati inseriti o no nel mondo del lavoro- e alla chiusura, negli ultimi anni, nel territorio di Roma Capitale di numerosi progetti finalizzati al sostegno e all’inclusione di persone fragili (in particolare a quelle con problemi correlati al consumo problematico e/o con dipendenza) ha provocato una ricaduta particolarmente devastante in questa fascia di popolazione. Infatti, la mancanza di un impegno formativo-lavorativo, seppure sotto forma di laboratorio, di tirocinio formativo, di presa in carico in servizi finalizzati all’accompagnamento alla ricerca attiva del lavoro o la frequenza a brevi corsi di formazione per favorire l’ingresso in settori specifici del mondo del lavoro, oltre all’assenza di un reddito/indennità, provocano lo scivolamento inesorabile di quelle persone, come se fossero su un piano inclinato, verso forme di estrema povertà. Purtroppo è anche evidente come i servizi deputati a queste funzioni per la popolazione generale (COL, Centri per l’impiego) hanno una soglia di accesso troppo alta per accogliere e seguire persone con una bassa motivazione e con condizioni psico-fisiche-formative a volte compromesse e spesso insufficienti per fruire efficacemente di percorsi “ordinari” di inclusione.
E’ altrettanto evidente che, in particolare a Roma, si sia scelto ormai da anni di azzerare completamente le opportunità di inserimenti lavorativi di persone fragili praticati dalle realtà sociali che fanno dell’inclusione sociale e lavorativa il loro scopo primario, nonostante un sostegno a questi percorsi non comporti nessuna spesa aggiuntiva per l’Amministrazione, ma sia -al contrario- realizzabile con una scelta di orientamento della spesa pubblica già preventivata che potrebbe svolgere un ruolo fondamentale nel perseguimento degli obiettivi di crescita intelligente, sostenibile ed inclusiva, definiti -tra l’altro- anche dalla strategia Europa 2020. Gli strumenti legislativi, inoltre, sono già previsti: L. 381/91. L.R. 24/96, Delibera 60/2010 Roma Capitale, basterebbe applicarli con convinzione e costanza.
L’evidenza, supportata da analisi e studi scientifici nazionali e internazionali, ormai è consolidata: ogni risorsa pubblica investita nell’inclusione lavorativa di persone in condizione di svantaggio restituisce alla collettività un netto positivo in termini di impatto sociale, non solo in termini di risparmio economico, ma anche di contributi alla crescita civile, alla sicurezza sociale e di partecipazione, allo sviluppo della ricchezza collettiva e, spesso, alla “uscita” definitiva dalla zona di svantaggio per un reinserimento vero e partecipato nella comunità.
Rileviamo infine, la mancanza di programmi adeguati all’inserimento socio lavorativo prevalentemente nelle aree più periferiche e marginali, che corrispondono spesso alle più grandi piazze di spaccio. Spesso la marginalità e il degrado coincidono con la mancanza di un tessuto produttivo, di tipo legale ed etico, che possa soddisfare l’incontro tra domanda ed offerta, portando ad un progressivo impoverimento di tutta la comunità. Una politica del lavoro che tenga conto delle fragilità presenti nei territori richiede un lavoro di condivisione con le politiche sociali, che rilanci l’avvio di laboratori di preparazione e preformazione al lavoro in cui poter coinvolgere tutta la cittadinanza anche nell’ottica della rigenerazione urbana, percorsi di specializzazione, collaborazioni e protocolli con le scuole e gli istituti di formazione professionale per il recupero di competenze ed il conseguimento di titoli di studio, luoghi nei quali trovare accoglienza, socializzazione, formazione, orientamento per recuperare le disuguaglianze e le esclusioni dal mondo del lavoro, dei veri e propri presidi di inclusione e promozione sociale. Bisognerebbe promuovere progetti di sviluppo ecosostenibili a livello territoriale applicando il sistema della coprogettazione per sostenere l’inserimento socio lavorativo (piano cittadino sull’agricoltura sociale, rigenerazione urbana con valorizzazione dei beni comuni). Riteniamo che la misura del Reddito di Cittadinanza, pur avendo contribuito a restituire un minimo di dignità e di tranquillità a molte persone, non vada confusa con misure e programmi volti alla riattivazione delle persone sul fronte lavorativo: non si può pensare di rispondere al gap formativo e alla mancanza di lavoro con una misura prevalentemente economica, occorre costruire progetti che siano individualizzati, finanziati ad hoc e monitorati da personale esperto, e che siano compatibili con i tempi di cui necessita ognuno.
Altre forme di sostegno e/o presa in carico leggera
In una città complessa come Roma tale programmazione dovrebbe garantire una pluralità di servizi che favoriscano l’integrazione delle persone più fragili e a rischio di grave emarginazione: in risposta a tale complessità l’offerta dei servizi dovrebbe essere altrettanto differenziata. Attualmente le risposte garantite dai servizi pubblici (Ser.D) e la tradizionale assistenza residenziale (comunità) non riescono a soddisfare la richiesta di aiuto e di presa in carico né dal punto di vista quantitativo, né da quello qualitativo.
Nel corso degli anni l’Amministrazione Capitolina ha sperimentato servizi di pronta accoglienza ad alta valenza sociale che si ponevano come intermedi tra i servizi di cura e la strada: Centri notturni, Drop in (servizi in grado di ridurre i rischi di grave degrado sociale e di emarginazione), Centri diurni a soglia intermedia per una presa in carico più orientata all’inserimento sociale o a favorire la maturazione di una richiesta di aiuto più strutturata, tutti servizi di prossimità, deputati ad offrire la possibilità di una “presa in carico leggera” e destinati a quel numeroso target di persone che non sono in grado di fruire di presidi sociali o sanitari con una soglia di accesso più alta.
I Centri a residenzialità leggera possono accogliere persone in stato di mancanza di dimora, con esigui o inesistenti legami familiari e sociali, persone uscite dal carcere o che hanno bisogno di un domicilio, anche temporaneo, per eseguire una misura alternativa alla detenzione, persone prive di una rete sociale di riferimento, persone a rischio di grave marginalità.
Spesso i comportamenti di consumo/abuso di sostanze alimentano tensioni e conflitti all’interno del tessuto cittadino, amplificando determinate percezioni sociali che hanno innescato in alcuni quartieri dinamiche di difficile gestione. In considerazione di questa complessità e della necessità che l’offerta di servizi non debba rispondere soltanto alla domanda insita nei problemi delle persone che consumano, ma anche a quella di quei cittadini o gruppi che sentono di subire gli effetti di questo fenomeno, occorre ipotizzare interventi di mediazione, rivolti all’individuo e al suo contesto e fortemente integrati con gli attori che a vario titolo intercettano il fenomeno. C’è bisogno quindi di interventi che possano attivare le risorse e le potenzialità del territorio e possano produrre forme di sviluppo e nuove pratiche di relazione entro i contesti.
Le difficoltà progressivamente crescenti negli ultimi anni ad affrontare efficacemente le necessità legate all’abitare e alla produzione di un reddito, seppur minimo, hanno avuto ricadute devastanti su quelle fasce di popolazione già fragili e a rischio di povertà estrema. Interessanti, ad esempio, sembrano essere forme di housing diffuse sul territorio che, rispondendo utilmente ad un bisogno alloggiativo, possono diventare contemporaneamente dei luoghi produttori di sviluppo di forme di autonomia e/o di semi-autonomia in tutte quelle situazioni in cui l’autonomia è stata compromessa non solo dai consumi, ma dalla sopraggiunta presenza di precarie condizioni di salute, economiche o relazionali. Si può pensare alla gestione di questi spazi con un percorso di accompagnamento che possa creare nuove forme di inclusione sociale facilitando le relazioni non solo tra gli abitanti dell’alloggio, ma tra essi e la comunità locale entro cui sono inserite le abitazioni, nell’ottica di favorire anche lo sviluppo dei contesti e l’integrazione. Questi interventi possono rappresentare un laboratorio di innovazione nella riprogrammazione dell’offerta dei servizi, ipotizzando non solo il ripristino di servizi di prossimità (centri notturni e diurni, forme di residenzialità leggere a bassa soglia, unità di strada), ma anche nuove forme di housing sociale nelle sue varie declinazioni.
Si auspicano quindi programmi di informazione e prevenzione territoriali, progettati tenendo presente le diverse caratteristiche dello sconfinato territorio di Roma Capitale e adeguandoli sartorialmente ai differenti rischi presenti nei diversi cluster di popolazione (giovani, donne, anziani) coinvolgendo prioritariamente le realtà aggregative (centri anziani, associazionismo) e la scuola.
Innovazione e sperimentazione
Il Comune, o meglio l’Area Metropolitana, pur non essendo titolare della sanità, appannaggio delle Regioni, vede il Sindaco come responsabile della condizione di salute della popolazione del suo territorio. In questa veste può sollecitare, ad esempio, l’aumento dei servizi ispirati dalle politiche di riduzione del danno, estendendo tale approccio ben al di là dell’utenza di riferimento prevista sino ad oggi. Il fenomeno dei consumi e delle dipendenze è caratterizzato da una forte e veloce mutevolezza, pertanto, in assenza di continua innovazione dei servizi e di sperimentazione di nuove pratiche si rischia di essere sempre un passo indietro e di rimanere arroccati su posizioni ormai superate, anacronistiche e spesso inefficaci.
I gruppi aderenti al CNCA Lazio, oltre all’attenzione ed esperienza specifica nella prevenzione, nell’inclusione socio lavorativa e nella cura delle persone con problemi correlati al consumo di sostanze, hanno sempre mantenuto un impegno sulla RDD e sulla RDR nella convinzione che a tutte quelle persone che decidono di sperimentare sostanze psicoattive e di continuare a consumarle nonostante gli evidenti e gravi problemi correlati e nonostante non abbiano ancora formulato una richiesta d’aiuto, dovesse essere garantito il diritto di consumare nel modo più sicuro possibile, di contenere i rischi di peggioramento dello stato di salute individuale, riducendo al contempo i rischi di contagio della popolazione generale in una logica di salute pubblica.
Molte delle sostanze consumate sono illegali e provengono da un mercato sommerso che non può garantire alcun parametro di qualità in termini di percentuale di principio attivo presente e addirittura di presenza o meno della sostanza ricercata oltre che di eventuali tagli, questa condizione rappresenta un elevato rischio per i consumatori.
In questo quadro, è legittimo pensare che Roma divenga terreno di sperimentazione su diversi fronti, coniugando al contempo obiettivi di Riduzione del Danno, Limitazione dei Rischi, Inclusione Sociale e Lavorativa e Salute Pubblica. In altri paesi, a tale proposito si sono prodotte sufficienti evidenze scientifiche che rivelano la possibilità che i tempi siano maturi per avviare anche a Roma la sperimentazione sia delle cosiddette “stanze del consumo”, intese come case della salute per consumatori di droghe, sia sulla pratica del Drug Checking. Queste sperimentazioni potrebbero coinvolgere diversi soggetti, pubblici e privati (Università, Ser.D, Enti del Terzo Settore, Enti Pubblici …) e dopo un periodo sperimentale sufficiente se ne potrebbe valutare l’utilità e misurarne gli esiti al fine di prevederne l’eventuale pianificazione.
Infine, particolarmente in questo periodo, sarebbe indispensabile la sperimentazione di un modello di inclusione sociale e lavorativa che faccia sintesi delle molte esperienze progettuali pregresse e che valorizzi il patrimonio di Roma Capitale. Ad esempio, nel 2022 scadrà l’affidamento di 9 anni della Tenuta Agricola/Comunità “Le Selve” sita a Città della Pieve (PG) che dispone di oltre 200 ettari di terreno e di 5 casali già completamente ristrutturati oltre ad altri da ristrutturare. Su questo bene, evidentemente sottoutilizzato, si potrebbero far convergere risorse e competenze per un grande progetto di inclusione che consenta di esprimere al meglio tutte le potenzialità della struttura, rispondendo ai bisogni e ai desideri di una gamma ampia di utenza: l’ultima cosa da far accadere è il rinnovo automatico per ulteriori 9 anni agli attuali affidatari soltanto perché nessuno si preoccupa di verificare se l’ambizioso Piano di Sviluppo Aziendale presentato in occasione della partecipazione al Bando sia stato effettivamente realizzato o meno; inoltre, il mutato scenario delle dipendenze e dei disagi sociali impone un utilizzo coevo e intelligente di un siffatto patrimonio pubblico, uscendo definitivamente da un modello inadeguato alla complessità ampiamente descritta nel presente documento.
Il presente documento è stato elaborato e condiviso dagli operatori impegnati nei servizi/progetti gestiti dai gruppi aderenti al CNCA Lazio. I contenuti espressi rappresentano una sintesi del pensiero che si è consolidato in molti anni di esperienza nel settore e le proposte fatte si ritiene possano essere efficaci per affrontare un fenomeno complesso e fortemente mutevole come quello dei consumi e delle dipendenze. Il documento viene offerto al dibattito pubblico in occasione delle prossime elezioni amministrative con l’auspicio che chi si candida ne tenga conto nella elaborazione dei programmi elettorali. Sin d’ora ci dichiariamo disponibili ad elaborare schede di approfondimento sulle singole proposte presentate.
Roma, 28 Aprile 2021
Per contatti:
Referente area consumi e dipendenze CNCA Lazio
Stefano Regio – 335404966 – mail: stefano.regio@yahoo.it